La malattia secondo Tolstoj

War_and_peaceLev Tolstoj da “Guerra e pace”

Avuta notizia della malattia di Nataša, la contessa, ancora debole e non del tutto ristabilita, era giunta a Mosca insieme a Petja e a tutta la servitù. La famiglia Rostov al completo si era trasferita dalla casa di Mar’ja Dmitrievna nella propria, fissandosi definitivamente a Mosca.
La malattia di Nataša era così seria che, per fortuna sua e dei genitori, il pensiero di quella che era stata la causa della sua malattia, il suo modo di agire e la rottura con il fidanzato passarono in secondo piano. Era così malata, che non si poteva indugiare sul pensiero della sua colpevolezza per quanto ora non mangiava, non dormiva, dimagriva a vista d’occhio, tossiva e, a quanto lasciavano capire i dottori, correva grave pericolo. Bisognava pensare soltanto ad aiutarla. I dottori si recarono a trovare Nataša singolarmente o radunati a consulto, parlavano molto in tedesco, in francese e in latino, si criticavano l’un l’altro, prescrivevano le più svariate medicine contro ogni malattia di cui avessero nozione; ma a nessuno di loro passava per la mente la semplice idea che essi non potevano conoscere la malattia di cui soffriva Nataša, così come non si può conoscere nessuna malattia da cui sia colto un uomo vivente, giacché ogni uomo ha le sue peculiarità e ha sempre una propria malattia nuova e particolare, complicata e ignota alla scienza medica: non una malattia dei polmoni, del fegato, della pelle, del cuore, dei nervi eccetera, così come sono descritti in medicina, ma una malattia dovuta a una delle innumerevoli combinazioni che scaturiscono dalle affezioni di tali organi. Questa semplice idea non poteva passare per la mente dei medici (così come non può passare per la mente di uno stregone l’idea che egli non possa operare sortilegi), perché il loro scopo basilare consiste nel curare, perché per questo essi ricevono soldi, e a tale scopo hanno speso gli anni migliori della loro vita. Ma soprattutto quest’idea non poteva venire loro in mente perché vedevano quanto utile fosse la loro presenza, in effetti, a tutte le persone di casa Rostov. Essi non erano utili perché facevano inghiottire alla malata dei medicamenti in gran parte nocivi (questo danno era poco sensibile, perché le sostanze nocive venivano somministrate in piccole dosi), ma erano utili, necessari, inevitabili (la stessa ragione per cui ci sono e sempre ci saranno pseudoguaritori, maghi, omeopati e allopati), perché soddisfacevano l’esigenza morale della malata e delle persone che alla malata volevano bene. Essi appagavano quell’eterno bisogno dell’uomo di sperare in un sollievo, il bisogno di partecipazione altrui, affettiva e attiva che l’uomo prova quando soffre. Soddisfacevano a quell’eterno bisogno umano – rilevabile, nella sua forma primitiva già nel bambino – che è il bisogno di nuocere e accarezzare la parte che ci duole. Il bambino si fa male e subito corre nelle braccia di sua madre, o della bambinaia, perché lo bacino e gli massaggino il punto che duole: e in effetti si sente meglio, quando lo massaggiano o gli baciano quel punto. Il bambino non può non credere che chi è tanto più forte e sapiente di lui non abbia i mezzi per alleviare il suo dolore. E la speranza di un sollievo, l’affetto e la tenera solidarietà di sua madre mentre massaggia il suo bernoccolo valgono a consolarlo. A Nataša i medici erano dunque utili perché baciavano e massaggiavano la «bua», assicurandole che sarebbe passata subito: bastava che il cocchiere fosse andato alla farmacia sull’Arbat e avesse comperato un rublo e sessanta copechi di polvere e pillole confezionate in vezzose scatolette, e che la malata avesse trangugiato quelle polveri sciolte in acqua bollita rispettando rigorosamente un intervallo di due ore tra una dose e l’altra.
Che cos’avrebbero fatto Sonja, il conte e la contessa? Come avrebbero potuto starsene a guardare la debole Nataša che dimagriva a vista d’occhio, senza far nulla, se non ci fossero state quelle pillole all’ora stabilita, le bevande tiepide, la costolettina di pollo e tutte quelle regole di vita spicciole che il dottore prescriveva e la cui osservanza rappresentava l’occupazione e la consolazione di chi circondava la malata? Quanto più severe e complicate erano queste regole, tanto più consolante era la cosa per chi la circondava. Come avrebbe sopportato, il conte, la malattia della figlia prediletta se non avesse saputo che questa malattia gli costava migliaia di rubli e che egli non avrebbe esitato a spenderne altre migliaia pur di recarle giovamento; se non avesse avuto la consapevolezza che, se nemmeno così si fosse ripresa, egli non avrebbe esitato a sacrificarne altri mille ancora, e che l’avrebbe portata all’estero, e ivi avrebbe chiesto altri consulti medici; se non avesse avuto la possibilità di raccontare nei minuti particolari come Métivier e Feller non avessero capito nulla, mentre Frise aveva capito e Mudrov aveva diagnosticato la malattia con precisione e acume anche maggiori? Che cosa avrebbe fatto, la contessa, se talvolta non avesse potuto inquietarsi con Nataša perché non osservava alla lettera le prescrizioni mediche?
«Così non guarirai mai,» diceva, dimenticando per la stizza il proprio dolore, «se non dai retta al dottore e non prendi in tempo le medicine! C’è poco da scherzare quando ti potrebbe venire una pneumonia!» diceva la contessa; e già nel pronunciare questa parola non per lei sola incomprensibile, provava un gran conforto.
Che cos’avrebbe fatto, Sonja, se non avesse avuto la gioiosa consapevolezza che, nel primo periodo della malattia di Nataša, per tre notti non si era svestita, per esser pronta ad eseguire a puntino tutte le prescrizioni del medico, e che anche adesso la notte non dormiva per non lasciarsi sfuggire le ore in cui bisognava somministrare quelle certe pillole (non troppo dannose… ) contenute nella scatoletta dorata? E persino per Nataša – anche se, a sentir lei, nessuna medicina avrebbe saputo guarirla, e che erano tutte stupidaggini – perfino per lei era consolante vedere che per la sua salute si facevano tanti sacrifici, che ad ore fisse doveva prendere le medicine; e perfino le riusciva di conforto poter dimostrare che, trascurando di fare quanto le era stato prescritto, non credeva nella guarigione e non dava importanza alla propria vita.
Il medico veniva ogni giorno, le tastava il polso, le guardava la lingua, e senza far caso al suo viso abbattuto, scherzava con lei. Ma in compenso, quando egli passava nell’altra stanza, la contessa si affrettava a seguirlo ed egli, assumendo un’aria contegnosa e scuotendo il capo impensierito, diceva che il pericolo sussisteva, ma nondimeno nutriva fiducia nell’efficacia di quell’ultima medicina, che bisognava aspettare e stare a vedere… che la malattia era soprattutto d’ordine psicologico, ma…
Cercando di nascondere l’atto a se stessa e al dottore, la contessa gli faceva scivolare in mano una moneta d’oro e ogni volta ritornava dalla malata col cuore più tranquillo.
I sintomi della malattia di Nataša consistevano nel mangiar poco, dormir poco, tossire, e nel non riprendere le forze perdute. I dottori dicevano che non si poteva lasciare la malata senza assistenza medica, cosicché, nonostante l’afa estiva, la trattenevano in città. Fu così che nell’estate 1812 i Rostov non andarono in campagna.
Ma nonostante la gran quantità di pillole ingoiate, nonostante le gocce e polverine in fialette e scatolette – di cui M.me Schoss, appassionata di queste cianfrusaglie, aveva raccolto una cospicua collezione – nonostante la mancanza dell’abituale soggiorno in campagna, la giovinezza ebbe il sopravvento: il dolore di Nataša cominciò a venir ricoperto dall’accumularsi delle impressioni quotidiane; smise di pesarle sul cuore con una fitta così lancinante e cominciò a trasformarsi in passato. E pian piano le condizioni fisiche di Nataša cominciarono a migliorare.

[Lev Tolstoj, “Guerra e pace”, libro terzo, parte prima, par. XVI, ed. Einaudi]

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