
Sempre più spesso, in questi ultimi anni, si è vista la necessità di approcciarsi al mondo della disabilità psico-fisica con metodi tecnico-scientifici: base-line, schede osservative, valutazioni, check-list, prove e confutazioni delle stesse messe nero su bianco, che analizzano i comportamenti delle persone, offrendo sistematicamente risposte il più possibile congrue al superamento delle difficoltà e quindi alle possibilità di crescita.
Abbiamo osservato, come operatori del sociale, ma non solo, l’evoluzione di alcune teorie della mente e il fallimento di altre, ritenute ormai inadeguate o superate ed in tale senso ci siamo adattati nel nostro pensiero progettuale per l’utenza. In particolar modo l’intervento psico-educativo come approccio a persone con diagnosi di autismo ha vissuto in questi ultimi anni, almeno in Italia, un cambio di rotta repentino e sottoscritto nei documenti ufficiali a livello nazionale dal Ministero della Salute (DSM-V), attraverso linee guida precise.
Si parla quindi di approccio cognitivo-comportamentale e di tecniche correlate come unici ed efficaci interventi su persone con patologia autistica. Non solo, sono state tolte dai possibili interventi efficaci, e di fatto da una efficacia progettuale sull’individuo, attività fino a ieri definite “terapeutiche” quali, ad esempio, l’ippoterapia o la musicoterapia. Ormai assodate le dispercezioni sensoriali che i soggetti autistici presentano: le iper o ipo reattività agli stimoli sensoriali che li portano ad avere reazioni avverse nei confronti di suoni o consistenze tattili specifici o le difficoltà nell’interazione sociale, disturbi della pragmatica che limitano la reciprocità sociale.
Lungi da me il voler prendere posizione o giudicare l’adeguatezza di un intervento piuttosto che di un altro, porto la mia quotidianità come esempio della variabilità delle situazioni.
Non mi dilungherò a questo punto, sulla finalità del trattamento Shiatsu, le tradizioni ad esso collegate e le corrette modalità da mettere in pratica, ma sui risultati che osservo.
Sono un educatrice professionale e lavoro nel sociale da 21 anni, da qualche anno ad oggi in un Centro Diurno per disabili adulti medio-gravi dove su alcuni di loro abbiamo attivato un progetto di Shiatsu gestito da consulenti esperti, che seguo con particolare interesse personale. I ragazzi in questione presentano disabilità psico-fisiche medio-gravi, due di loro hanno una diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico.
Come operatore del sociale osservo e verifico quotidianamente l’adeguatezza di una scelta progettuale nei confronti dell’utenza che ho in carico. Il mio lavoro ha come obiettivi il miglioramento della qualità della vita delle persone valorizzandone le capacità o in alcuni casi, quelli che presentano maggiori difficoltà, offrendo situazioni di benessere.
E’ proprio con i soggetti autistici che il trattamento Shiatsu si pone come la condizione di benessere per eccellenza, abbattendo le barriere delle difficoltà. L’assenza di reciprocità sociale, le rigidità cognitive, le difficoltà a percepirsi come identità strutturata, vengono colmate dalla relazione più antica e primordiale che esiste: il contatto, il bisogno che tutti gli esseri umani da quando esistono ricercano verso gli altri e per se stessi.
Quel particolare contatto eseguito dal praticante e che avvicina il ricevente alla propria identità, alle proprie percezioni verso il mondo esterno e verso se stesso. Quel tocco che nella sua straordinaria semplicità è ricco di significati che parlano di cura; che attraversa le barriere della disabilità per arrivare ad essere percepito come fonte di benessere anche da chi non è in grado di codificare correttamente ciò che avviene attorno a sé.
E allora si instaura anche una reciprocità sociale che porta il ricevente a cercare il tocco dello shiatsuka ed a guidarne le mani per farsi trattare alcune zone piuttosto che altre. A volte le loro difficoltà sensoriali li portano a ricercare un contatto non adeguato: troppo intenso, troppo rapido, inappropriato, ma che per loro in quel momento è la tacita richiesta di colmare un bisogno. Lo shiatsu accoglie e colma questo bisogno portando la relazione a livelli più adeguati, infondendo sicurezza e stabilità in chi lo riceve.
Si osserva allora il cambiamento dei riceventi: la loro postura rilassata, l’interazione dello sguardo, l’accettazione di quel contatto insolito, perché diverso da quello a cui sono abituati, se non sconosciuto, la loro flessibilità nell’uscire dalle stereotipie e accettare di fatto qualcosa di ignoto ed incomprensibile a livello cognitivo ma fonte di benessere ad un livello più profondo.
Anche se per ora non ne posso convalidare la finalità terapeutica già questi risultati non mi sembrano possano essere definiti meno importanti degli approcci finalizzati e strutturati all’acquisizione di competenze definiti sui vari documenti ufficiali.
Come ho osservato in questi anni di lavoro e di esperienza, perseguire in toto una teoria piuttosto che un’altra non risponde mai alle necessità di nessun essere umano, in difficoltà o meno. Ragionare in termini di benessere per l’altra persona è cercare di mettere insieme tanti approcci e intercalarli sulla stessa, verificandone di volta in volta i benefici e aprendosi alle metodiche alternative senza preconcetti.
Monica Balducci
leggi anche:
https://wshiatsu.wordpress.com/2010/04/13/shiatsu-moncalieri/
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https://wshiatsu.wordpress.com/2012/09/06/shiatsu-disabili/